... ho giustappunto finito...

brani dai libri appena letti

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    Fight Club - Chuck Palaniuk

    Le grosse braccia di Bob erano chiuse a tenermi dentro e io ero spremuto nel buio fra le nuove tette sudate di Bob, giganteschi ciondoli, grandi come immagineremmo quelle di Dio. In giro per lo scantinato della chiesa pieno di uomini ci incontriamo ogni sera: questo è Art, questo è Paul, questo è Bob; le spalle larghe di Bob mi fanno pensare all'orizzonte. I folti capelli biondi di Bob erano quelli che ti ritrovi quando il gel si fa chiamare schiuma modellante, così folti e biondi e la scriminatura così dritta.
    Con le braccia che mi avvolgono, la mano di Bob mi accarezza la testa contro le nuove tette che gli sono sbocciate sul torace.
    «Andrà tutto bene» dice Bob. «Piangi, piangi.»
    Dalle ginocchia alla fronte sento le reazioni chimiche che dentro Bob bruciano alimenti e ossigeno.
    «Forse l'hanno tirato via tutto in tempo» dice Bob «Forse è solo un seminoma. Con un seminoma si ha una probabilità di sopravvivenza che è quasi del cento per cento.»
    Le spalle di Bob si risucchiano in una lunga boccata, poi mollano, mollano, mollano in singulti. Si risucchiano. Mollano, mollano, mollano.
    Sono due anni che vengo qui tutte le settimane e tutte le settimane Bob mi avviluppa nelle sue braccia e io piango.
    «Piangi» dice Bob e inala e sin, sin, singhiozza. «Coraggio, piangi.»
    Il faccione bagnato mi si siede sulla testa e io mi ci perdo dentro. t adesso che mi metto a piangere. Piangere è facile nel buio soffocante, chiuso dentro qualcun altro, quando vedi ché tutto quello che riuscirai mai a combinare finirà in spazzatura.
    Tutto quello di cui potrai mai andare fiero finirà buttato via.
    E io sono perso dentro.
    È quanto di più vicino sono arrivato a dormire in quasi una settimana.
    È così che ho conosciuto Marla Singer.
    Bob piange perché sei mesi fa gli hanno tirato via i testicoli. Poi terapia di reintegrazione ormonale. Bob ha le tette perché il suo tasso di testosterone è troppo alto. Alzi troppo il livello di testosterone e il tuo corpo aumenta gli estrogeni per ritrovare un equilibrio.
    Questo è il momento in cui piango io perché ora come ora la tua vita si riduce a nulla e nemmeno nulla, all'oblio.
    Troppi estrogeni e ti vengono zinne da femmina.
    Facile piangere quando ti rendi conto che tutte le persone che ami o ti respingono o vanno all'altro mondo. Dato un lasso di tempo abbastanza lungo, per tutti la percentuale di sopravvivenza precipita a zero.
    Bob mi vuole bene perché crede che anche a me abbiano tolto i testicoli.
    Intorno a noi, nello scantinato della Trinity Episcopal con i divani a scacchi da quattro soldi, ci saranno una ventina di uomini e una sola donna, tutti avvinghiati a due a due, quasi tutti in lacrime. Certe coppie sono curve in avanti, le teste schiacciate orecchio a orecchio, come fanno i lottatori, ingrippati. L'uomo in compagnia dell'unica donna le pianta i gomiti sulle spalle, un gomito per parte ai lati della testa, la testa di lei tra le mani di lui, e la faccia di lui che piange contro il collo di lei. Il volto della donna si storce da una parte.
    Io sbircio da sotto l'ascella di Big Bob.
    «Per tutta la vita» piange Bob. «Perché sto a sbattermi, non lo so.»
    L'unica donna qui presente al Restare Uomini Insieme, il gruppo di sostegno dei malati di cancro testicolare, questa donna soccombe al peso di uno sconosciuto e i suoi occhi s'incrociano con i miei.
    Imbrogliona. Imbrogliona. Imbrogliona.
     
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  2. zabriskie point
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    La nave dei folli - Sebastian Brant

    NON A TUTTI I DISCORSI PRESTARE ORECCHIO`
    Chi si vuole nel mondo accomodare,
    Oggi dovrà molte cose incassare,
    E sul suo conto chiacchiere traudire
    E molti amari bocconi inghiottire.
    Di lodi è perciò degno l'eremita
    Che fuor dal mondo conduce sua vita,
    Che se ne va per monti e per vallate
    Onde sfuggire le offese arrecate
    Dal mondo, ed evitarne così il tarlo,
    Ché sa che non è degno, coi suoi canti,
    Di frastornare le orecchie dei santi.
    Chi secondo virtù vuole campare,
    Non deve a tutti l'orecchio prestare
    Ma esser fermo nella decisione,
    Sordo restando del matto alla canzone.
    Se avessero i profeti ed i sapienti
    Per vane ciance avuto orecchi attenti
    Anziché giustamente sentenziare,
    Li avremmo visti in oblio sprofondare.
    Non vive in terra un solo essere umano
    Che dia contento a ogni cervel balzano.
    Chi ciascuno sapesse soddisfare
    Sarebbe un servitore da ammirare,
    Che di prím'alba s'alza dal suo letto
    E mai si concede del sonno il diletto.
    Di semola deve aver sacco colmato
    Chi ogni stomaco voglia far beato.
    Perché certo non è in nostro potere
    Di ogni matto i capricci compiacere.
    Ciò che ha potuto, il mondo ha sempre fatto,
    E molto spesso ha persino strafatto.
    Il matto "cucù, cucù" canta e ricanta,

    Come un uccello che mai non la pianta.
     
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  3. Illusive Man
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    CITAZIONE (zabriskie point @ 14/1/2014, 09:39) 
    La nave dei folli - Sebastian Brant

    NON A TUTTI I DISCORSI PRESTARE ORECCHIO`
    Chi si vuole nel mondo accomodare,
    Oggi dovrà molte cose incassare,
    E sul suo conto chiacchiere traudire
    E molti amari bocconi inghiottire.
    Di lodi è perciò degno l'eremita
    Che fuor dal mondo conduce sua vita,
    Che se ne va per monti e per vallate
    Onde sfuggire le offese arrecate
    Dal mondo, ed evitarne così il tarlo,
    Ché sa che non è degno, coi suoi canti,
    Di frastornare le orecchie dei santi.
    Chi secondo virtù vuole campare,
    Non deve a tutti l'orecchio prestare
    Ma esser fermo nella decisione,
    Sordo restando del matto alla canzone.
    Se avessero i profeti ed i sapienti
    Per vane ciance avuto orecchi attenti
    Anziché giustamente sentenziare,
    Li avremmo visti in oblio sprofondare.
    Non vive in terra un solo essere umano
    Che dia contento a ogni cervel balzano.
    Chi ciascuno sapesse soddisfare
    Sarebbe un servitore da ammirare,
    Che di prím'alba s'alza dal suo letto
    E mai si concede del sonno il diletto.
    Di semola deve aver sacco colmato
    Chi ogni stomaco voglia far beato.
    Perché certo non è in nostro potere
    Di ogni matto i capricci compiacere.
    Ciò che ha potuto, il mondo ha sempre fatto,
    E molto spesso ha persino strafatto.
    Il matto "cucù, cucù" canta e ricanta,

    Come un uccello che mai non la pianta.

    rider-waite-03678rider-waite-03676
     
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    Igiene dell'assassino - Amélie Nothomb

    -Avrei voluto insegnarle che, strangolando Léopoldine, io le ho risparmlato la sola vera morte, che è l'oblio. Lei mi considera un assassino, ma io sono uno dei rarissimi esseri umani che non abbia mai ucciso nessuno. Si guardi intorno e guardi se stessa: il mondo pullula di assassini, cioè di persone che si permettono di dimenticare coloro che dicevano di amare. Dimenticare qualcuno: ha pensato che cosa significa? L'oblio è un oceano gigantesco sul quale naviga un solo naviglio, che è la memoria. Per la maggioranza degli uomini, quel naviglio si riduce a una miserabile bagnarola che fa acqua alla minima occasione, e il cui capitano, personaggio senza scrupoli, pensa solo a fare economia. Sa in che cosa consiste questa parola ignobile? A sacrificare quotidianamente, tra i membri dell'equipaggio, quelli che sono giudicati superflui. E sa quali sono giudicati superflui? Gli stronzi, i noiosi, gli stupidi? Neanche per idea: quelli che si buttano di sotto sono gli inutili — quelli di cui ci si è già serviti. Ci hanno già dato il meglio di loro stessi: e allora, che altro potrebbero ancora darci? Su, senza pietà, facciamo pulizia, e hop! Scaraventiamoli giù dal parapetto, e che l'oceano li inghiottisca, implacabile. Ecco, cara signorina, come si pratica in tutta impunità il più banale degli omicidi. Non ho mai approvato questo massacro spaventoso, ed è nel nome di questa innocenza che lei oggi mi accusa, secondo la definizione che gli uomini danno di giustizia, che è una specie di preludio alla delazione.
     
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    Né di Eva né di Adamo - Amélie Nothomb

    Quello che sperimentavo con Rinri era una novità, che si articolava intorno alla condivisione di un fantastico disagio. Quella vita a due somigliava al materasso ad acqua sul quale dormivamo: fuori moda, scomodo e buffo. Il nostro legame consisteva nel provare insieme un commovente malessere.
    Quando decretava che ero bella, Rinri interrompeva qualsiasi cosa: dovevo conservare, quale che fosse, la posa, sempre strana. Lui allora veniva verso di me lanciando degli "oh!" di stupore. Io ero incredula. Un giorno entrai in cucina, dove era tutto indaffarato. Un pomodoro mi tentò, e vi affondai i denti. Lui lanciò un grido; pensai che si trattasse di uno di quei famosi casi di bellezza e immobilizzai il mio gesto. Mi strappò il pomodoro di mano e disse che quell'ortaggio mi avrebbe rovinato il colorito. Da parte di un divoratore di salame alla maionese, giudicai l'affermazione assurda e recuperai il pomodoro. Lui sospirò frasi disperate sulla fugacità della carnagione chiara.
    A volte, squillava il telefono. Rispondeva alla giapponese, cioè in modo talmente conciso che la cosa suonava sospetta. La conversazione durava al massimo dieci secondi. Io non conoscevo ancora questa abitudine giapponese e pensai ancora una volta che appartenesse alla yakuza, come la sua Mercedes immacolata aveva lasciato supporre. Andava a fare la spesa in macchina e tornava due ore dopo con tre radici di zenzero. Le sue compere nascondevano sicuramente qualche piano criminale. D'altronde, grazie alla sorella, aveva legami con la malavita californiana.
    Più avanti, quando la sua innocenza fu fuor di dubbio,
    Venni a sapere che la verità era ancora più incredibile: ci metteva davvero due ore a scegliere tre radici di zenzero.
    Il tempo passava lento. Ero libera di uscire, ma non ci pensavo neanche. Quel soggiorno ieratico mi affascinava. Quando Rinri si allontanava per le sue misteriose imprese, avrei voluto approfittare della solitudine per compiere qualche cattiva azione: giravo per il castello di cemento, cercando la possibilità di nuocere, ma non la trovavo. Allora a malincuore, scrivevo.
    Lui rientrava. Lo accoglievo cerimoniosamente chiamandolo Danasama (Eccellenza, mio maestro). Lui protestava la sua inferiorità, prosternandosi e qualificandosi "tuo schiavo". Dopo questo teatrino, mi mostrava quello che aveva comprato.
    — Tre radici di zenzero, è fantastico! — dicevo, estasiata.
    Mi vedevo già partecipare a un convegno di mogli di grandi criminali. "Come ha saputo che il suo fidanzato era un boss?"
    Cercavo di decodificare i suoi comportamenti. Ne aveva di molto curiosi. Piazzava in mezzo al salone un grosso recipiente di bambù colmo di sabbia. Ne lisciava la superficie poi, in piedi, vi tracciava segni cabalistici aiutandosi con l'alluce nudo.
    Tentavo di decifrare quanto scriveva, ma lui, in preda al pudore, lo cancellava con il tallone. La cosa mi pareva confermare la tesi del banditismo. Fingendo innocenza, gli chiedevo che senso avesse quell'esercizio di calligrafia.
    — È per concentrarmi — diceva.
    — Concentrarti in vista di cosa?
    — Di niente. Bisogna sempre essere concentrati.
    La cosa non aveva l'aria di funzionare: era perennemente tra le nuvole. Ma quel gesto finì per ricordarmi qualcuno.
    — Cristo, nell'episodio dell'adultera, traccia dei segni per terra con il piede — dissi.
    — Ah — commentò con l'indifferenza profonda che gli ispiravano tutti gli argomenti religiosi (salvo l'ordine dei Templari, va a sapere perché).
    — Lo sai che sulla croce del supplizio, al di sopra di Gesù, i Romani avevano scritto INRI? A parte una lettera, è il tuo nome. E gli spiegai l'acronimo. Riuscii a catturare il suo interesse. — Perché io ho una lettera in più? — domandò.
    — Forse perché non sei Cristo — suggerii io— O forse Cristo aveva - un' iniziale in più. La R iniziale potrebbe essere quella di ronin.
    — Conosci molte espressioni in cui il giapponese sia mescolato al latino? — chiesi ironica.
    — Se Cristo tornasse oggi, non si accontenterebbe di parlare una sola lingua.
    — Sì, ma non parlerebbe latino.
     
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    La via del samurai - Yukio Mishima

    HAGAKURE E IO
    I compagni spirituali della gioventù sono gli amici e i libri. Gli amici hanno corpi in carne e ossa e mutano di continuo. Gli entusiasmi che ardono in una fase si raffreddano in quella successiva, cedendo ad altri ardori e ad altri amici. In certo senso, ciò vale anche per i libri. Può darsi che un libro, che ci esaltò da ragazzi, riletto anni dopo perda tutto il suo fascino e risulti soltanto il cadavere del libro che ricordavamo. Ma la grossa differenza, fra gli amici e i libri, è che gli amici cambiano, i libri no. Anche quando sta a raccogliere polvere, negletto, in un canto della scansia, un libro conserva accanitamente il suo carattere e la sua filosofia. Può solo cambiare il nostro atteggiamento verso di esso, se lo accettiamo o lo rifiutiamo, se lo leggiamo o no, e questo è tutto
     
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    Chi non legge questo libro è un imbecille - Oliviero Ponte di Pino

    UNA DIVAGAZIONE FISIOGNOMICA
    Sulla scia dello Pseudo-Aristotele si apre un'ampia divagazione che riguarda una scienza che godrà del massimo fulgore nel Settecento: la fisiognomica. Per Johann Kaspar Lavater, supremo cultore di questa branca del sapere (oltre che autore di un fondamentale volume che raccoglie i Canti svizzeri), è facilissimo distinguere gli stupidi. Il suo Della fisiognomica (per il quale s'avvalse dell'aiuto di Herder e Goethe) sostiene che è stupido ogni viso
    • «la cui bocca di profilo è così larga che la distanza dall'occhio, calcolata dalla palpebra superiore fino al culmine della bocca, corrisponde soltanto al doppio della sua larghezza». (LIX)
    • «la cui sezione inferiore, calcolata dal naso, si divide attraverso la linea mediana della bocca
    in due parti uguali». (Lx)
    • «la cui sezione inferiore, calcolata dalla fine del-naso, misura meno di un terzo del viso intero; più che stupido, è folle». (Lxi)
    • «la cui sezione inferiore è più considerevole di
    ciascuna delle due parti superiori». (Lxii)
    • «che dall'angolo dell'occhio fino al centro della
    spina nasale è più corto che da qui sino alla
    punta della bocca». (Lxv)
    • «i cui occhi distano l'uno dall'altro decisamente di più della lunghezza del singolo occhio». (LXVI)
    Ovviamente,
    «Quanto più è ottuso l'angolo che si forma tra il contorno dell'occhio e la bocca, osservati di profilo, tanto più debole e sciocco è l'uomo». (LXIII)
    Infine, è banale sottolineare che:
    «Ogni viso è stupido di natura quando la sua fronte è notevolmente più corta del naso, misurato dalla fine della fronte, pur avendo la massa morbida e perpendicolare delle guance la stessa lunghezza». (Lxiv)
    Si tratta di un insieme di osservazioni dettagliate e puntali, che ci conducono finalmente al
    QUIZ DI LAVATER
    A questo punto, puoi prendere un righello, un goniometro e un calcolatore, puoi metterti davanti allo specchio (o -se preferisci puoi schiacciare la faccia sul vetro della fotocopiatrice e premere il tasto «copy»), misurare i tratti del tuo viso e infine calcolare i loro rapporti reciproci, secondo le indicazioni di Lavater.
    SOLUZIONE
    Se I'hai fatto, non c'è ombra di dubbio: sei uno stupido
     
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  8. zabriskie point
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    I miei soldati erano stanchi come se avessero portato un pesante fardello. I miei capitani venivano a trovarmi: « Quando ritorneremo a casa? Il sapore delle donne delle oasi conquistate non vale il sapore delle nostre mogli ».
    Un tale mi diceva: « Signore, penso continuamente a colei che è fatta del mio tempo, delle mie dispute. Vorrei ritornare e vivere comodamente. Signore, c'è una verità che non so più approfondire. Lasciami crescere nel silenzio del mio villaggio. Sento il bisogno di meditare sulla mia vita ».
    Compresi che essi avevano bisogno di silenzio, poiché solo nel silenzio la verità di ciascuno si ricompone e mette le radici. Perché il tempo innanzi tutto conta come nell'allattamento. Chi vede crescere il bambino sotto i suoi occhi? Nessuno. Sono quelli che vengono da un altro luogo che dicono: « Come s'è fatto grande! ». Ma né il padre né la madre l'hanno visto crescere. Egli è divenuto nel tempo, e in ogni momento era quello che doveva essere.
    Ecco dunque che i miei uomini avevano bisogno di tempo, non foss' altro che per comprendere un albero, per sedersi sulla soglia della loro casa di fronte allo stesso albero con gli stessi rami. A poco a poco l'albero si rivela.
    Infatti quel poeta, una sera accanto al fuoco nel deserto, parlava semplicemente del proprio albero. E i miei uomini, molti dei quali non avevano mai visto altro che erba dei cammelli, palme nane e rovi, lo ascoltavano attentamente.
    « Tu non sai », diceva loro, « che cos'è un albero. Io ne ho visto uno che era spuntato per caso in una casa abbandonata, un rifugio senza finestre, ed era partito alla ricerca della luce. Come l'uomo deve essere immerso nell'aria, come la carpa deve essere immersa nell'acqua, così l'albero deve essere immerso nella luce. Perché piantato nella terra per mezzo delle radici, piantato negli astri per mezzo delle fronde, è la via di scambio fra noi e le. stelle. Quell'albero, nato cieco, aveva dunque dispiegato nel buio la sua potente muscolatura, brancolando da un muro all'altro, vacillando e questo dramma si era impresso nelle sue torsioni. Poi, dopo aver infranto un abbaino nella direzione del sole, era emerso dritto come una colonna, e io assistevo, guardando in prospettiva come fa lo storico, alle evoluzioni della sua vittoria.
    « Contrastando magnificamente con i nodi causati dal contorcimento del tronco nella bara, esso si schiudeva nella quiete, estendendo, grande come una tavola, il suo fogliame illuminato dal sole, allattato dallo stesso cielo, nutrito superbamente dagli dei.
    « E ogni giorno, all'alba, lo vedevo risvegliarsi dalla cima alla radice, poiché era popolato d'uccelli. Appena albeggiava cominciava a vivere, poi, una volta che il sole era sorto, il mio albero-casa, il mio albero-castello, lasciava andare nel cielo le sue provviste come un vecchio pastore bonario e restava silenzioso fino a sera... ».
    Così raccontava e noi sapevamo .che bisogna guardarlo a lungo un albero perché nasca in noi in quel modo. E ciascuno invidiava quel poeta che portava nel cuore quella massa di fronde e di uccelli.
    « Quando », mi domandavano, « quando finirà la guerra? Anche noi vorremmo capire qualcosa. È tempo per noi di divenire... ».
    E se uno di loro catturava una volpe del deserto ancora piccola e alla quale potesse dare da mangiare, la nutriva come faceva talvolta con le gazzelle quando si degnavano di non morire. La volpe del deserto gli diveniva ogni giorno più preziosa poiché egli vedeva crescere i suoi peli di seta, la sua. astuzia e sopratutto quel bisogno di cibo che esigeva così imperiosamente tutta la sollecitudine del guerriero. E questi viveva nella vana illusione di infondere nel piccolo animale qualcosa di se stesso come se quella volpe fosse nutrita, formata e plasmata del suo amore.
    Poi un bel giorno la volpe, richiamata dall'amore, fuggiva nella sabbia e svuotava d'un colpo il cuore dell'uomo. Uno di costoro l'ho visto morire per essersi difeso fiaccamente durante un'imboscata. Quando apprendemmo la sua morte, mi tornò in mente la frase misteriosa che aveva pronunciato dopo la fuga della sua volpe, un giorno in cui i suoi compagni, scorgendolo melanconico, gli avevano suggerito di catturarne un'altra:: « Occorre troppa pazienza — aveva risposto - non per prenderla, ma per amarla ».
    Ecco dunque che i miei soldati, avendo capito la vanità dei loro scambi, erano stanchi delle volpi e delle gazzelle, poiché una volpe fuggita al richiamo dell'amore non arricchisce di loro il deserto.
    « Ho dei figli », mi diceva un altro, « e crescono senza che io li abbia educati: Non depongo dunque niente in loro. Dove andrò quando sarò morto?
    Ed io, circondandoli del silenzio del mio amore, osservavo il mio esercito che cominciava a fondersi nella sabbia e a disperdersi come quei torrenti causati dai temporali, che si prosciugano nonostante lo strato sotterraneo d'argilla e muoiono sterili non essendosi mutati, lungo le rive, in alberi, in erba, in nutrimento per gli uomini.
    Il mio esercito aveva desiderato mutarsi in oasi per il bene dell'impero, al fine di ornare il mio palazzo di quei luoghi lontani, in modo che parlando di esso si potesse dire: « Quale sapore di Sud gli danno queste palme, questi nuovi palmeti, questi villaggi in cui si scolpisce l'avorio... ».
    Ma noi combattevamo senza impadronircene e ciascuno pensava al ritorno. Così l'immagine dell'impero si dileguava come un volto che non si sa più guardare e che si disperde nella disparatezza del mondo.

    « Che cosa c'importa », dicevano, « di essere più o meno ricchi di quest'oasi? In che cosa ci accrescerà? Quali ricchezze ci darà quando, ritornati alle nostre case, - ci rinchiuderemo nel villaggio? Essa gioverà soltanto a chi l'abiterà e raccoglierà i datteri delle sue palme o laverà la biancheria nell'acqua limpida dei suoi ruscelli ».

    da Cittadella di Antonie de Saint-Exupéry
     
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  9. lunantica
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    CITAZIONE (zabriskie point @ 10/3/2014, 09:54) 
    X
    Quando apprendemmo la sua morte, mi tornò in mente la frase misteriosa che aveva pronunciato dopo la fuga della sua volpe, un giorno in cui i suoi compagni, scorgendolo melanconico, gli avevano suggerito di catturarne un'altra:: « Occorre troppa pazienza — aveva risposto - non per prenderla, ma per amarla ».

    ...è il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante
     
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  10. zabriskie point
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    Lo stesso autore che celebrava l'incontro con la volpe ne "Il Piccolo Principe".
    Cittadella è la sua opera postuma e incompiuta, è molto complessa, avevo iniziato a leggerla anni fa e ci avevo rinunciato, adesso ci ho riprovato, merita, non per tutti, non per tutte le età, complesso e contraddittorio a volte.
     
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  11. zabriskie point
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    Avevo quasi nove anni quando per la prima volta m'innamorai. Fui ghermito interamente da una passione violenta e totale che mi avvelenò l'esistenza e rischiò di costarmi la vita.
    Lei aveva otto anni e si chiamava Valentina. Potrei descriverla a lungo e fino a perdere la parola, e se avessi la voce non la smetterei di cantare la sua bellezza e la sua dolcezza. Era una brunetta con gli occhi chiari, mirabilmente ben fatta, vestita di bianco e con una palla in mano. Me la vidi apparire davanti nel deposito di legname, nel punto in cui cominciavano le ortiche che coprivano il terreno fino al muro dell'orto vicino. Non posso descrivere l'emozione che m'invase: tutto quel che so è che le gambe mi si fecero di ricotta e che il cuore prese a saltarmi con tale violenza da offuscarmi la vista. Assolutamente deciso a sedurla sull'istante e per sempre, di modo che non vi fosse più posto per un altro uomo nella sua vita, feci come mi aveva detto la mamma e, appoggiandomi con noncuranza ai tronchi di legno, alzai gli occhi verso la luce per soggiogarla. Ma Valentina non era donna da lasciarsi impressionare. Io restai là, gli occhi alzati al sole, fino a che sulla faccia mi scorsero le lacrime; ma la crudele, per tutto quel tempo, continuò a giocare con la palla senza manifestare il minimo segno d'interesse.
    Gli occhi mi uscivano dalla testa, tutto stava diventando fuoco e fiamma intorno a me; ma Valentina non mi concedeva neppure uno sguardo.
    Del tutto sconcertato da quella sua indifferenza, dal momento che tante signore nel salone della mamma si erano doverosamente estasiate davanti ai miei occhi azzurri, quasi accecato e avendo esaurito fin dal primo colpo, per così dire, le munizioni, mi asciugai le lacrime e, capitolando senza condizioni, le tesi le tre mele verdi che avevo appena rubato dall'orto. Lei le accettò e mi disse, come per inciso:
    «Janek ha mangiato per amor mio tutta la sua collezione di francobolli».
    È così che ebbe inizio il mio martirio. Nei giorni che seguirono mangiai per Valentina diverse manate di vermi, un considerevole numero di farfalle, un chilo di ciliegie col nocciolo, un topolino e, per finire, posso dire che a nove anni, e cioè molto più giovane di Casanova, feci il mio ingresso tra i più grandi amanti di tutti i tempi compiendo una prodezza amorosa che nessuno, a quanto ne so, è mai sopravvenuto a eguagliare. Mangiai per la mia amata una scarpa di gomma.
    Qui devo aprire una parentesi.
    So benissimo che, quando si tratta delle loro imprese d'amore, gli uomini sono portati a vantarsi. A dar retta a quanto dicono, le loro prodezze virili non hanno limiti, e non vi risparmiano nessun dettaglio.
    Perciò non pretendo che mi si creda quando sostengo che, per amore della mia amata, mangiai anche un ventaglio giapponese, dieci metri di filo di cotone, un chilo di noccioli di ciliegie - Valentina mi riforniva, per così dire, il fabbisogno, mangiando la polpa e passandomi i noccioli — e tre pesci rossi, che eravamo andati a pescare nell'acquario del suo professore di musica.
    Dio solo sa quante me ne hanno fatte ingoiare le donne nella mia vita; ma non ho mai conosciuto una natura più insaziabile. Era un misto di Messalina e di Teodora di Bisanzio. Dopo quell'esperienza si può dire che ormai sapevo tutto dell'amore. La mia educazione era fatta. Da allora non ho fatto che andare avanti per forza d'inerzia.
    La mia adorabile Messalina non aveva che otto anni, ma le sue esigenze fisiche superavano tutto quello che ebbi occasione di conoscere nel corso della mia esistenza. Correva davanti a me nel cortile, mi indicava ora un mucchio di foglie, ora della sabbia, ora un vecchio turacciolo, e io eseguivo i suoi ordini senza ribellarmi, ben contento di poter essere ancora utile. Una volta s'era messa a cogliere un mazzo di margherite, che io vedevo crescerle in mano con apprensione: ma mangiai anche le margherite sotto il suo sguardo attento — lei sapeva già che gli uomini cercano sempre di barare in quei giochi — in cui cercavo invano una luce di ammirazione. Senza concedermi un segno di plauso o di gratitudine, ripartì saltellando per tornare di lì a un momento con alcune lumache che mi tese sul palmo della mano. Io mangiai devotamente le lumache col guscio e tutto.

    A quei tempi non s'insegnava ancora niente ai ragazzi sul mistero del sesso; e io ero convinto che si facesse all'amore in quel modo. Probabilmente avevo ragione.

    da "La promessa dell'alba" Romain Gary
     
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    STORIA DI UN GATTO E DEL TOPO CHE DIVENTò SUO AMICO - LUIS SEPULVEDA

    Mix non aveva mai dato la caccia a un uccello, ma ricordava con quanto piacere seguiva il volo delle gazze che tornavano al nido da posti lontani, sempre con piccoli oggetti brillanti nel becco. Ricordava con emozione anche gli alti voli degli storni in bande numerose che sembravano muoversi
    nel cielo come un solo corpo scisso in migliaia di minuscoli frammenti scuri. E il calore dolce che emanava il termosifone gli riportò davanti agli occhi dei ricordi il volo pesante, faticoso delle oche che ogni anno, migrando verso sud dalle regioni più fredde, annunciavano l'arrivo dell'inverno.
    Stava bene, più che bene accanto al termosifone e ai suoi ricordi, quando sentì dei passettini lievi, lievissimi ma svelti che si avvicinavano, si fermavano e ricominciavano ad avvicinarsi.
    Senza cambiare posizione tese i muscoli. Con gli occhi chiusi mosse orecchie e baffi. Quella cosa che si stava avvicinando odorava di carta, aveva lo stesso odore dei libri in
    cui Max scopriva i segreti della scienza. All'improvviso, con la rapidità dei suoi anni migliori, Mix allungò una zampa anteriore e palpò un corpicino tremante sotto i cuscinetti: si agitava cercando di liberarsi, ma Mix premette fino a immobilizzarlo.
    « Va bene, sentiamo un po', che strano essere sei, tu? » domandò nella lingua dei gatti, dei topi e di altri abitanti dei tetti.
    Sotto la zampa, un topo minuscolo cercava inutilmente di liberarsi dal peso che lo bloccava, ma per quanto piccolo, debole e fragile, era un topo astuto e prima di rispondere pensò in fretta e furia a tutto quello che sapeva dei gatti. Pensò a tutto quello che, in teoria, trovavano ripugnante.
    «Sono una lumaca, signor gatto. In effetti sono una lumaca viscida e schifosa, una bestiaccia brutta e ripugnante, al punto che non oso guardarmi allo specchio perché mi faccio paura e ribrezzo. In effetti sono molto brutta, anzi bruttissima, perciò la prego di non aprire gli occhi perché l'impressione di trovarsi davanti una bestia così brutta potrebbe farla star male, toglierle l'appetito, provocarle orribili incubi. Perché mai sono così brutta?! »
    Senza allentare la pressione, Mix palpò la testa, le minuscole orecchie, il dorso e la coda del topo con l'altra zampa anteriore.
    « Una lumaca con orecchie, baffi e coda. Non avrei mai pensato che una lumaca potesse assomigliare tanto a un topo e nemmeno che fosse così chiacchierina. »
    Il topo pensò che ormai era perduto, ma subito ricordò che a volte, dal suo nascondiglio nella parte più alta della libreria, aveva visto il giovane Max mettersi le mani nei capelli trovando penne e carte sparpagliate per terra. Allora domandava a voce alta chi si era arrampicato sulla sua scrivania e Mix, il gatto dal profilo greco, arrivava facendo le fusa e si sdraiava a pancia in su accanto ai piedi di Max in una confessione silenziosa' che faceva sorridere il ragazzo e lo spingeva a esclamare:• « Bravo Mix, fra amici bisogna dire sempre la verità ». E poi lo accarezzava o gli serviva una razione extra di croccantini.
    « In effetti, signor gatto, mi ha scoperto: sono un topo e le assicuro che sono anche uno dei più interessanti che ci siano in giro, benché come sapore se ne trovino di assai migliori. Se le dico la verità, soltanto la verità, senza tenere per me alcun segreto... vinco qualche .premio? »
    . Prima di rispondere, Mix alzò la zampa e lasciò libero il topo.
    « So che sei un topo, anzi so che sei il topo che vive in cima alla libreria. Ti sento tutti i giorni quando scendi, vai alla dispensa e mangi i cereali che sono caduti. Come sai, non ci vedo, ma le orecchie e il naso mi aiutano a scoprire cosa succede. Dimmi un po', non hai paura di me? »
    « In effetti, signor gatto, ho paura, molta paura, sono un topo fra i più vigliacchi che ci siano, sto tremando da capo a piedi, ma la fame, signor gatto, è più forte anche della paura. Volevo essere sicuro che non ci vedesse perché sul tavolo della cucina c'è del müsli che sembra delizioso, deliziosissimo, superdelizioso, e io ho una passione spropositata per le cose deliziose. Ecco la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità... C'è qualche premio per uno così sincero? »
    « Sì, ma prima dimmi come sei fatto. »
    Allora il topo descrisse se stesso, disse che aveva la pelliccia marrone chiaro con una striscia bianca che partiva dal collo e arrivava al sedere, aggiunse che aveva i baffi corti, la coda sottile e il naso rosa.
    « In effetti, signor gatto, sono quel che si dice un bel topo, bello, morbido e tiepido. Sono un topo messicano e vivevo con i miei fratelli in un appartamento al piano di sotto, una vita triste e segregata in un cubo di vetro, ma un giorno siamo scappati... I miei fratelli se la sono svignata in strada, io invece ho deciso di salire nel suo appartamento, senza alcuna intenzione di disturbare. E sono anche molto furbo, il topo più furbo che ci sia, so molte cose che le racconterei volentieri se mi lasciasse mangiare quel müsli così delizioso, deliziosissimo, superdelizioso...»
    «Va bene, topo. Goditi quel müsli, ma usa la bocca solo per mangiare » disse Mix e ascoltò i minuscoli passi del topo che correva in cucina.
     
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    Nudo si madre - Aldo Busi


    Una verità in ritardo è una puntuale menzogna.

    ...perché chi tradisce, esponendosi alla vendetta, appartiene al tradito, non più a se stesso...

    ... l'esperienza che hai fatto con i cattivi è ancora niente rispetto all'esperienza cui potresti andare incontro con i buoni.
     
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    da "Amore, Prozac e altre curiosità" di Lucía Etxebarría

    Q di Quesiti, Querelle e Qualcuno da amare

    Appunti per la mia tesi: Catullo dedicò tutta la sua opera a Lesbia. Antinoo si buttò in uno stagno quando si convinse di non essere più abbastanza bello per Adriano. Marco Antonio perse un impero per Cleopatra. Lancillotto tradì il suo mentore e miglior amico per amore della regina Ginevra e in preda alla passione e al rimorso intraprese il suo pellegrinaggio in cerca del Santo Graal. Robin Hood rapì Lady Marian. Beatrice liberò Dante dal Purgatorio. Petrarca dedicò tutta la sua opera a Laura. Abelardo ed Eloisa si scrissero per tutta la vita. Diego Marcilla, a Teruel, cadde morto ai piedi di Isabel di Segura quando venne a sapere che questa aveva sposato il pretendente scelto dal padre. Giulietta si pugnalò quando vide Romeo morto. Melibea si gettò dalla finestra quando morì Calisto. Ofelia si buttò nel fiume convinta che Amleto non l'amasse. Polifemo cantò Galatea fino alla fine dei suoi giorni mentre vagava in lacrime tra prati e fiumi. Botticelli impazzì per Simonetta Vespucci dopo averne immortalato la bellezza nella maggior parte dei suoi quadri. Giovanna di Castiglia vegliò Filippo il Bello per mesi, giorno e notte, inconsolabile, e quindi andò a chiudersi in convento. Don Chisciotte dedicò tutte le sue imprese a Dulcinea. Donna Inés si suicidò per don Giovanni e tornò in seguito dal paradiso per intercedere per la sua anima. Garcilaso scrisse decine di poesie per Isabel de Freire, e non la toccò mai con un dito. San Francesco Borgia lasciò la corte alla morte dell'imperatrice Isabella. Non toccò più nessun'altra donna. Elisabetta di Inghilterra respinse principi e re per amore di Sir Francis Drake. Sandokan lottò per Marian, la perla di Labuan. Werther si sparò alla tempia quando gli annunciarono le nozze di Carlotta. Hólderlin si ritirò su una torre alla morte di Diotima, che non aveva mai neppure toccato, e non ne uscì mai più. Rimbaud, che aveva scritto capolavori a sedici anni, non scrisse più una riga da quando terminò la sua relazione con Verlaine; diventò un mercante di schiavi e si suicidò letterariamente. Verlaine cercò di uccidere Rimbaud e subito dopo si convertì al cattolicesimo e scrisse le Confessioni; non fu mai più lo stesso. Julian Sorel sopportò di non guardare più negli occhi per due mesi Matilde de la Mole pur di riconquistare il suo affetto. Anna Karenina abbandonò il figlio per amore del tenente Vronskij e si buttò sotto un treno quando credette di aver perso quell'amore. Camille Claudel impazzì per Rodin, che non mosse mai un dito per lei. E io continuo a lasciare messaggi quotidiani sulla segreteria di Iain ma se lui me lo chiedesse smetterei di farlo e non lo chiamerei mai più. E non mi viene in mente una prova d'amore più grande, perché penso a lui di continuo.
     
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    Un letto fra le lenticchie da Signore e signori di Alan Bennett

    NERO.

    Susan è seduta nel salotto della canonica. Appare molto più elegante delle scene precedenti, è fresca di parrucchiere, sembra una donna diversa. Sera.



    Mi alzo e dico: «Mi chiamo Susan. Sono la moglie di un vicario e sono alcolizzata». Poi racconto la mia storia. Almeno in parte. «Non indorarci la pillola» dice Clem, l'assistente socio-psicologico. «Nessuno si scandalizzerà, credimi cocca, ci siamo passati tutti». Ma di Mr Ramesh non parlo perché da lì non ci sono passati. «Ascoltate, gente. Ero talmente ubriaca che andavo a letto con un droghiere asiatico. Sì, e voi non ci crederete mi piaceva. Mi piaceva eccome ». Oh, mamma mia. Che razza di ubriacona.

    Perciò stendo un velo su Mr Ramesh che una volta, nel giorno di san Simone e san Giuda (preghiera corale del Vespro alle sei, funzioni alle solite ore), si è messo il trucco sugli occhi, i campanelli alle caviglie, e vestito della sola cintura ha danzato nel retro del negozio con un tamburello.

    « Come sei arrivata agli Alcolisti Anonimi? » domandano. «Mio marito» dico. «Il vicario. Mi ha convinta lui ». Ma è una bugia. Non è stato mio marito, è stato Mr Ramesh, lo squisito, delicato, gentile Mr Ramesh che una domenica sera mi ha guardato col viso sgomento, nel quale i baffi stentavano a crescere, e mi ha chiesto se poteva prendere il toro per le corna e domandare se l'ubriachezza era un requisito del rapporto sessuale, o se lo era solo quando andavo a letto con lui, il bel Mr Ramesh, ventisei anni, gambe meravigliose: se l'ebbrezza era riservata solo a lui. E forse, ha proseguito questa creatura esile, perfetta e sgomenta, forse era per il suo colore? Perché se no si permetteva di suggerire che magari senza bere sarebbe stato ancora più bello. Perciò la via di Damasco è merito di Mr Ramesh, il cui nome è risultato essere ancora Ramesh. Ramesh Ramesh, membro dell'associazione comunitaria e della camera di commercio di Leeds.

    Ma non dico niente di tutto ciò. Anzi, non dico mai niente di niente. Solo quando Geoffrey si rende conto (e occorrono tre settimane buone) che la signora Vicaria si è finalmente staccata dalla bottiglia, a chi va il merito? Non a uno degli allegri piccoli dèi di Mr Ramesh che se ne fanno di cotte e di crude alla luce del sole, proprio come Mr Ramesh. Nossignori. Il dieci e lode va al compare di Geoffrey, la Divinità, che agisce in modo notoriamente misterioso


    Edited by zabriskie point - 21/5/2014, 15:52
     
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